L'ex Fiat da abbattere (e le baracche degli sfollati): era lì la nostra via Gluck - Il Tirreno Livorno

2022-05-14 21:09:36 By : Mr. Xinsu Global

La demolizione del fabbricato della casa torinese sul viale Petrarca per far posto a Esselunga riporta alla memoria cosa ha rappresentato quell'insediamento nello sviluppo delle nuove periferie anni '60: Colline e Coteto (ma anche molto altro...) erano campi, campi, campi

LIVORNO. Là dove c’era l’erba ora c’è una città: per noi ragazzi quella era la nostra via Gluck. Anche se all’ufficio toponomastica della cittadella rossa, infischiandosene di Celentano, avevano preferito intitolarla al professor Giulio Anzilotti, un “santo” laico che valeva quasi una Madonna di Montenero con lo stetoscopio. Fra la via Aurelia e l’Est non c’era nulla. Solo una striscia di case che dalla piazza dell’ospedale risaliva via di Salviano, poi nulla se non campi, campi e campi. Fino alla ferrovia e oltre.

E anche al di qua del viale Petrarca tanti orti e spazi edificabili: quanto basta per immaginare come mai una star della letteratura romantica europea come Percy Bysshe Shelley – a Livorno insieme alla sua Mary, la romanziera di “Frankenstein” – agli inizi dell’Ottocento gironzolava intorno a villa Valsovano (via Venuti), ora assediata da una babele di condomini, per scrivere l’ode-capolavoro “A un’allodola”…

1988: la Fiat Ritmo pubblicizzata con l'auto appesa al muro esterno della sede di viale Petrarca

Ma qui non stiamo parlando del trapassato remoto, quando nella zona dell’ospedale la Porta alle Colline la chiamavano anche “Porta ai Sughi” perché vi ammassavano il letame per concimare i terreni (cit. Riccardo Marchi). Ancora alla metà degli anni cinquanta, c’erano soprattutto zolle e orti nel triangolo fra villa Fabbricotti, la Terrazza Mascagni e lo stadio: figuriamoci cosa poteva capitare in questi cento ettari fra l’Aurelia e la ferrovia da Colline a Barriera Roma. Livorno s’era già rimangiata l’idea dello sviluppo verso Pian di Rota per far “inventare” agli uomini del ministro dc Beppe Togni il nuovo rione La Rosa là dove non avrebbe dovuto nascere.

Delle conseguenze si poteva trovare traccia nel catasto fino a pochi anni fa. Basti ricordare che all’inizio di questo decennio l’Agenzia del Territorio aveva messo gli occhi su Google Earth o qualcosa del genere e aveva annunciato di aver scovato nel territorio comunale qualcosa come 4.116 case-fantasma, invisibili agli occhi del fisco. Ve l’aspettate nascoste chissà dove in mezzo al bosco? Solo in parte: sì, oltre duecento nella zona fra Salviano e la Padula eppure nel foglio 41 in piena zona Fabbricotti c’erano 18 contestate in virtù degli accertamenti con le foto aeree, una sessantina nella zona di Sant’Agostino (foglio 41) e lungo la direttrice Scopaia-Limoncino (foglio 48). E poco meno di ottanta proprio nell’area di cui dicevamo: fra Colline e Coteto.  Del resto, ancora un pugno di anni fa nella versione on-line del sistema informativo della Provincia, al posto dei giardini ormai presenti da decenni in via Torino risultano invece presenti le baracche post-belliche che invece non ci sono più da quasi mezzo secolo…

La Fiat che mette radici lì cambia la fisiognomica urbanistica di un tassello-chiave nel puzzle dell’espansione delle periferie. Quel rettangolo un po’ trapezio affacciato sul viale Petrarca vale 25mila metri quadrati, grossomodo quanto un Ipercoop, ma la capacità di far da calamita era perfino maggiore. Anche perché fino a quel momento non c’era altro se non le baracche dei senza casa.

La guerra era finita da una quindicina di anni ma la fame di case non si era affatto spenta: anzi, al confine fra Colline e Coteto c’era un “villaggio” di baracche. Non era l’unico: di queste “case non-case” ne esistevano ben più di mille. Sono l’eredità della guerra: d’una guerra che non finisce con la liberazione, se è vero che la storica Chiara Fantozzi parla di “lunga liberazione” e ricorda che i territori comunali di Livorno e Collesalvetti sono «gli ultimi dell’Italia centrale ad essere restituiti alla piena giurisdizione del governo di Roma» dalle autorità alleate, e bisognerà aspettare la fine del ’45. Da aggiungere che, subito dopo aver rimesso nelle mani della giustizia civile italiana la possibilità di occuparsi dei reati contro le truppe angloamericane, l’amministrazione militare degli alleati nella Livorno ormai liberata da un anno e mezzo si riprende quel ruolo perché pensa che i magistrati livornesi siano di manica larga e teme un boom di attacchi ai propri militari. Immaginatevi che è solo nei giorni prima del Natale ’47 che i soldati Usa lasceranno definitivamente la città.

Restano appunto le baracche come nuclei di miseria, "formati dalle distruzioni e dalla crisi industriale": e qui Guido Piovene, nel reportage un po' giornalistico un po' letterario del "Viaggio in Italia", ricorda che “dentro le mura della Fortezza Medicea si è formata ad esempio una cittadella di gente priva di abitazione e di occupazione, che l’Ente Comunale di Assistenza soccorre: vive in baracche di legno e nei grandi barili, in cui si raccoglieva l’olio, divenuti ora case”.

LE BARACCHE E LA GUERRA SENZA “FINE”

Le baracche sotto gli occhi di tutti erano quelle dentro la Fortezza Nuova. “D’estate erano veri forni mentre l’inverno si trasformavano in freezer”, racconta Otello Chelli, veneziano doc, che ha vissuto in baracca per qualche tempo al rientro nella Livorno devastata dalle bombe. Vale la pena di aprire una parentesi per ascoltarlo rievocare sul Tirreno un episodio in quel “villaggio” fatto di “migliaia di sottoproletari, disoccupati, famiglie nell'indigenza, tutte costrette ad arrangiarsi per la mancanza di lavoro”: “Un giorno dei ragazzini, in animo di esploratori, penetrarono in un grosso tunnel e vi trovarono una vera piramide di materiale che negli anni di Livorno X Porto, era la manna della Babilonia labronica. C’era di tutto, dai pezzi di macchina ai trasformatori, a vestiario e, splendida sorpresa, una immensa catasta di scatolette con ogni ben di Dio e quei giorni furono mangiate colossali. Qualche banda aveva trafugato alcune decine di camion di materiale Usa e li aveva depositati in quel sotterraneo, dimenticandosene”.

Ma non c’erano solo “almeno duecento baracche” alla Fortezza: ce n’erano centinaia in via Terreni alle spalle del Pascoli, in via dei Floridi nei pressi dell’ex teatro San Marco. E poi in piazza Lavagna vicino all’ospedale: con la via Venuti chiusa a metà da un muro all’altezza di via del Fagiano. Rotto solo per la tenacia di un prete, don Gino Franchi, mandato lì a costruire una chiesetta prefabbricata (che avrà per anni un tetto di onduline prima di diventare l’attuale parrocchia Seton): lo scovò lui, in un contratto anni ’20,  il diritto per il Comune di acquisire i terreni per costruire la strada per l’ospedale

Questa lunga divagazione ci è servita per dire che le baracche erano la “normalità” o quasi quando la guerra ormai era finita da quasi vent’anni. La “normalità” dappertutto, ma soprattutto in questo enorme ritaglio fra due quartieri che non esistevano ancora: la metà sud di Colline più Coteto, appunto. «Via Toscana, come me la ricordo? Come uno stradello fra i campi. E al posto dello stradone che ora si immette sull’Aurelia davanti alla caserma dei carabinieri, c’era un campetto di calcio dove venivano a giocare i ragazzi di mezza Livorno: quante sfide con gente come Mauro Lessi che poi ritroverò con la maglia amaranto qualche anno più tardi...». Lo raccontava nel 2012 al Tirreno il fotografo Carlo Casadio, “cotetino” prima ancora che Coteto nascesse: è un anno che se n’è andato, gli amici come Paolo Falleni ricordano ancora che aveva sì chiuso il negozio ma non l’album della memoria («sono uno che è nato in viale Ugo Conti»). Lo chiamavano il “sindaco” del rione, scherzando, gli amici e lui davanti al taccuino del cronista ricordava quando «i buoi del Ghelardi passavano sul viottolo laggiù».  

Come dicevamo, il lunghissimo dopoguerra delle baracche durerà fino alla metà degli anni ’70, con la nascita del “villaggio Iacp” di Salviano fra via Haiphong e via Costanza. Era quaggiù che veniva a condividere sogni e bisogni, da giovane seminarista, un religioso che sarebbe poi tornato a Livorno prima come parroco dei Salesiani e poi come vescovo ausiliare al fianco di Ablondi: don Vincenzo Savio. In quegli anni era lì anche un altro prete-coraggio: don Beppe Ferrari.

Si campava di niente eppure a sentirla raccontare sembrava un’infanzia senza pensieri. Ad esempio: «Ricordo mia madre che lavava a mano i panni sporchi alla conca, e la domenica facevamo festa se per pranzo avevamo la pastascìutta al ragù di carne perché i soldi erano pochi, con il cibo dovevamo accontentarci di quello che c'era come per i vestiti e le scarpe. Eppure lo ricordo con tanta nostalgia perché c'era solidarietà: ancora adesso mi sento orgoglioso e fortunato dì avere fatto parte di questa meravigliosa comunità». E anche: «Anch’io rimpiango quei bei tempi, eravamo tutti amici e mi ricordo che sulla porta di casa avevano fatto un buco su cui passava una cordicella in modo che quando si usciva non cera bisogno di portare dietro le chiavi e non avevamo paura che qualcuno potesse entrare». Poi una sfilza di oltre cento “bellissime foto riguardanti le nostre care baracche, così dure umili e faticose a volte, ma nei nostri cuori rimane indelebile la nostalgia di una solidarietà che forse oggi non esiste più”. Sono solo alcuni flash pescati al volo dalla pagina Facebook di “Quelli delle baracche”: uno straordinario campionario di immagini e nostalgie di questo “mondo a parte”. Straordinario, perché lontano dai cliché delle immagini-cartolina di monumenti e vedute della città: forse semmai più vicine alle inquadrature del cinema neorealista di “Tutti a casa” girato con da Luigi Comencini nel ’60 nella nostra città proprio perché gli serviva una ambientazione bellica e, in effetti, la ricostruzione non correva poi così veloce…

La ruspa demolitrice in azione per far spazio all'Esselunga

Erano bastati pochi anni per tirar su una fungaia di appartamenti tutt’attorno. Con un mix di tipologie che era forse il segreto dell’integrazione: un bel po’ di case popolari, tre o quattro edifici con famiglie di militari, qualche fabbricato di enti previdenziali o grandi gruppi, grappoli di condomini di ceto medio che grazie allo stipendio di marito e moglie faceva il salto per diventare padroni del proprio tetto.

Là fuori, una vita scandita da una sfilza di liturgie. L’una: nella striscia di verde pubblico lungo via Lorenzini la presenza dell’autorità erano gli operai Iacp che sapevi ti avrebbero squarciato il “Supertele” se ti avessero beccato a far la partitella con le porte fatte con i golfini nelle “loro” aiuole, dunque si metteva il bimbo-sentinella e al primo fischio rinvio lungo e tutti a scappare per salvare il pallone. L’altra: alle scuole elementari Collodi non era bastato il Sessantotto per smetterla con le classi solo maschi o solo femmine, e al posto degli snack c’erano le boccette di yoga riempite di latte con i biscotti frullati da mammà (invece alle scuole dalle suore di Maria Ausiliatrice le classi miste erano la regola). La terza: i 400 bimbi da baby-boom che ogni giorno riempivano ogni angolo dell’oratorio salesiano dovevano fermarsi all’istante al fischio di don Dagna per dire la preghiera altrimenti erano guai, ma bastava l’“amen” ed ecco che si ricominciava a piazzare le figurine al muro per centrarle con il cuscinetto, il sasso o l’invidiato marmo rimodellato al tornio dal babbo per compiere in mezzo a una folla di occhi il passo al volo, il tacco punta ginocchino o il buzzone con l’arreggino.

I capannoni ex Fiat lato via Napoli già da decenni sono stati trasformnati in spazi per le piccole imprese

«Se ne va un pezzo dell’infanzia insieme alla vecchia cara nostra “Fiatte”». Leonardo Signorini aveva scritto il nome sbagliato «in uno dei miei primi pensierini alle elementari» per dire dove abitava. La Fiat gli ha trasmesso la passione per i motori, in particolare per i rally. «Il rally di Sanremo era valido per il campionato del mondo, le vetture ufficiali Fiat si fermavano alle officine per montare l’assetto da terra visto che le prove speciali in Toscana erano sterrate: lì ho conosciuto il grande Attilio Bettega, pilota eccezionale e persona gentilissima, poi morto tragicamente in Corsica. Ogni anno lo aspettavo alla Fiat con la mia biciclettina».

«Lo so bene che il fabbricato dell’ex Fiat andava buttato giù – dice Franco Ghignoli, ex abitante della zona – ma vedere la ruspa che lo abbatte mi ha colpito: è come se demolissero un pezzetto dell’ambientazione della mia storia personale, e credo di quella della città. Me lo ricordo l’andirivieni di bisarche che rifornivano di auto la Fiat, mi ricordo quella volta che misero un’auto appesa al muro».

«L’impatto ambientale delle operazioni di demolizione – aggiunge un altro abitante di via Ferraris – sono state mitigate con l’uso del getto d’acqua. Dispiace però vedere che un edificio del genere venga abbattuto. Capisco che vogliano realizzare il parcheggio sotterraneo ma forse si sarebbe potuto evitare l’azzeramento».

«Noi la vivevamo come una grande fabbrica: tutto quel movimento di camion che trasportavano auto, le presentazioni delle nuove macchine...», dice Ilario Sartori, arrivato al 24 di via Bonaventura nel ’64 («lo vedevi che era una zona in trasformazione, lato via Lorenzini non c’erano i giardini ma solo tante montagnole di terra da sistemare»): «Tutti noi della zona siamo stati testimoni della motorizzazione degli italiani: abbiamo visto uscire i modelli anni ’60 e ’70: penso ai 1100 D e R, alla vecchia Fiat 1500, alla 850 poi trasformata in 127, poi ancora la Panda 30 e 45, la 126, la Ritmo ma anche le sportive come la 850 sport e la X19. E’ come se tutto questo ci avesse accompagnato a diventare grandi e dovevamo passare davanti alla Fiat per attraversare l’Aurelia e andare alle medie Pazzini».

L’Aurelia era la linea d’ombra, si usciva dall’epopea baby da ragazzi della via Paal con i bimbi dei quartieri contro i ragazzini delle baracche: ognuno pronto a fare chi Boka, chi Gereb, chi Kolnay. E comunque Nemecsek non finiva male con la polmonite, tutt’al più una sassata alla spalla. Col ginocchio sbucciato l’indomani si sarebbe ricominciato: un altro giorno sarebbe arrivato. E allora era pieno di speranze.

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